Niccolò Macchiavelli

Niccolò di Bernardo dei Machiavelli, connu sous le nom de Niccolò Machiavelli (Florence, 1469 – 1527) : penseur, homme de lettres.

La situazione italiana richiedeva una guida politica ferrea e consapevole. Nella recente storia era passato, fugace come una meteora, quel Cesare Borgia che aveva offerto, a dire di M., un limpido esempio delle virtù necessarie al « principe nuovo »: aveva egli soprattutto dato la prova, nella sua Romagna, che era possibile domare l’anarchia feudale coll’opportuna ferocia e spietata determinazione, e conquistare in tal modo l’amore dei popoli finalmente uniti e pacificati (Principe VII). Al principe nuovo Machiavelli non prospettava (come tanti, prima di lui, avevano fatto) i principî di un’etica pubblica riferita a « come si dovrebbe vivere », ma le crude leggi dell’operare politico dettate dalla « verità effettuale della cosa » (PrincipeXV). La verità effettuale della storia è il conflitto: fra gli stati, fra i gruppi sociali, fra gli individui, si combatte una lotta senza soste e senza regole (a meno che un potere superiore non costituisca, appunto, delle regole e obblighi gli altri a rispettarle). Nella dimensione della politica l’unica antitesi dotata di senso è quella che oppone alla mera violenza della dissoluzione il comando razionale della forza: tale valore positivo va dunque perseguito con totale inflessibilità, anche quando ciò obblighi a « entrare » in azioni cui la coscienza morale dà il nome di « male » (Principe XVIII). Il principe nuovo e, in generale, l’uomo di stato si muovono per un campo avvolto da una profonda zona d’ombra, da un margine di rischio, in cui si annidano le forze e le decisioni degli avversarî attuali e potenziali, un campo che solo in parte può essere sondato e distinto dalla ragione: resta un momento incalcolabile, rispetto al quale l’uomo politico non può far altro che tendere al massimo la sua capacità di resistenza. Questo momento non distintamente calcolabile e prevedibile M. chiama « Fortuna ». La Fortuna può schiantare ogni cosa: ma la Virtù del politico deve allestire tutti « i ripari e gli argini » che sia in grado di alzare perché l’urto delle forze avverse ne venga, se non stornato, almeno attenuato (Principe XXV). La teoria politica di M. non si presenta in forma di « sistema », ma come vivo svolgimento di pensieri che dà, ai temi fin qui esposti, sviluppi complessi e variamente tormentati nelle diverse opere e anche in più luoghi della medesima opera. Si pensi ai varî « volti » che presenta la Fortuna in diversi capitoli dei Discorsi (II, 1; II, 29; II, 30; III, 9; ecc.); oppure a come trascolori di libro in libro, nella medesima opera, il grande tema della « imitazione ». Fin dal proemio al libro I, M. espone il doppio motivo del permanere e del mutamento; il mondo e gli uomini non hanno mutato « moto, ordine e potenza » rispetto a come « erano anticamente » e tuttavia della antica virtù « non è rimasto alcun segno ». Nel corso del primo libro, il motivo del permanere, su cui è costruita l’idea che Roma antica rappresenti un modello effettivo di perfezione politica, riesce nel complesso a mantenersi dominante. Nel libro successivo, invece, il suo dominio appare assai difficile e incerto. Nel secondo proemio, l’atto dell’imitare non è più proposto come termine di un valore autosufficiente ma è condizionato dall’aprirsi, o non aprirsi, di una conveniente « occasione », e anzi si dice, a chiare lettere, che nel presente tale occasione non è data « per la malignità de’ tempi e della fortuna ». Nel terzo proemio, infine, la nota dell’imitazione tace: la regola, lì esposta, del « ridurre ai principi », del riportare le costruzioni storiche, come gli stati, alle fonti etico-politiche della loro identità, in tanto può essere prospettata a colui che si trovi ad agire entro un dato « corpo » statuale, in quanto essa stessa tuttavia consegni ciascun « corpo » all’identità specifica e intrascendibile che nel suo « principio » è custodita. L’idea di « imitazione » tramonta così in una più drammatica, non bene esplicita e chiarita nozione del nesso che lega sapere storico e prassi politica. Le maggiori opere machiavelliane furono date alle stampe, a Roma e Firenze, nel 1531-32, soprattutto come eccellenti prove della civiltà letteraria fiorentina. Sul piano della cultura politica, invece, la lezione di M. subì, in Italia, una dura sconfitta, perfezionata con la messa all’Indice del 1559. I capitoli più significativi della fortuna di M. sono perciò legati alla storia dei grandi stati europei: dalla formazione dello stato nazionale francese (J. Bodin), alla rivoluzione inglese (J. Harrington), alla rinascita tedesca dell’Ottocento (J. G. Fichte, G. W. F. Hegel). L’Italia del Risorgimento riscopre M. con U. Foscolo e, soprattutto, con le pagine di F. De Sanctis, che attribuiscono al « Segretario fiorentino » un ruolo di protagonista nella storia dello spirito nazionale.

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